martedì 22 marzo 2016

STUPORE E TREMORI di Amélie Nothomb

Ogni tanto mi piace leggere qualcosa di più leggero, che mi faccia anche ridere. Un romanzo veloce e ironico, che mi faccia trascorrere qualche ora spensierata e rilassante, senza impegnarmi troppo.
"Stupore e tremori" di Amélie Nothomb, consigliato da una mia cara amica, sembrava promettermi tutto questo, ma in realtà non è stato così divertente leggerlo.

Il racconto corrosivo e surreale di un anno di lavoro in una grande multinazionale giapponese, la Yumimoto (nome di fantasia):
la giovane neoassunta Amélie, felice di aver realizzato il sogno di lavorare nel paese in cui è nata, si trova alle prese con la ferocia degli automatismi della burocrazia aziendale nipponica.
Dapprima incerta di fronte agli insensati soprusi dei superiori, poi sempre più disincantata, quasi irridente nel proseguire la sua impresa, che si rivela una catartica discesa agli inferi dell'umiliazione. Un'esperienza di degrado assoluto vissuta con il sorriso beffardo di chi non riesce a sentire offesa la propria dignità.
E tra tutti gli spettatori della sua incredibile parabola, spicca la figura flessuosa e bellissima di Fubuki, sua supervisore, e donna estremamente competitiva e determinata.

Figlia di un ambasciatore belga, Amélie Nothomb trascorre la sua infanzia in Giappone per poi trasferirsi in Cina per ragioni diplomatiche. La famiglia si stabilisce a Bruxelles quando lei ha 17 anni e, una volta laureatasi in filologia classica, decide di tornare in Giappone e lavorare come traduttrice in una grande azienda di Tokyo.
Questo suo romanzo è, praticamente, la biografia romanzata del suo anno di lavoro nel paese del Sol Levante. Per tutti i suoi libri lei prende ispirazione dalla sua vita personale e quindi risultano tutti autobiografici.

Non aspettatevi il resoconto di una scalata al successo, perché non si tratta proprio di questo, ma è più una discesa verso gli inferi, una vera e propria caduta libera verso il gradini più bassi dell'occupazione. Amélie subisce una serie di scorrettezze, cattiverie, umiliazioni, lavori impossibili e mobbing da parte dei suoi superiori, che la porteranno a convincersi di essere una povera minorata mentale.
Almeno a me, non ha fatto proprio ridere, ma più che altro sorridere, perché in alcuni punti mi ha fatto molto innervosire vedere come veniva trattata da tutti.
Ad un certo punto lei dice che un occidentale si sarebbe licenziato subito per ciò che subiva, mentre un giapponese no, per lui sarebbe stato un disonore. Quindi lei decide di sopportare tutte queste angherie per non perdere la faccia di fronte a tutta l'azienda.
Un atteggiamento coraggioso e onorevole da parte sua, ma dove finisce l'onore e comincia l'amor proprio, il rispetto per sé stessi? Si è veramente disposti a sopportare un anno di "torture" e cattiverie per non perdere l'onore di fronte a persone che non si rivedranno mai più? Per conformarsi a una cultura diversa dalla propria, che non fa alcuno sforzo per far spazio a te e al tuo essere? Personalmente non so se sarei in grado di mandare giù tanti rospi, ma la Nothomb ci riesce egregiamente, prendendola con filosofia, ironia e un pizzico di determinazione.

Inevitabile il continuo paragone tra cultura occidentale e nipponica, soprattutto per quanto riguarda l'ambiente lavorativo e tutte quelle regole non scritte che lo gestiscono e caratterizzano. Spaventoso quanto le gerarchie contino all'interno dell'azienda giapponese e quanto la competizione sia feroce, spietata e soprattutto sleale. Amélie non riceve alcun sostegno o solidarietà da parte di nessuno. Per ogni cosa è lasciata a sé stessa, deve contare solo sulle sue forze e non può chiedere aiuto a nessuno (tanto non glielo darebbero lo stesso). I compiti che le vengono assegnati sono sempre più difficili, fino all'incredibile declassamento ad addetta alle pulizie dei bagni.

Oltre a qualche sorriso qui e là, sono dovuta arrivare a metà libro per incontrare qualcosa che mi facesse sorridere (non credo sia un'ironia che mi appartiene), si fa fatica a credere che sia autobiografico a causa delle incredibili vicende che accadono ad Amélie. Un'esperienza vera e stupefacente che ti fa pensare: "Io come avrei reagito? Con dignità e sottomissione come lei? O avrei mandato tutti a quel paese?".
Interessante il titolo perché richiama il modo in cui bisogna presentarsi di fronte all'imperatore del Giappone: con stupore e tremori. E Amélie Nothomb ne fa una filosofia di vita lungo tutta la narrazione.

martedì 8 marzo 2016

UNA STANZA TUTTA PER Sé di Virginia Woolf

"Una stanza tutta per sé" è un saggio basato su due conferenze che Virginia Woolf tenne alla Arts Society di Newnham e alla ODTAA di Girton, nell'ottobre del 1928.
Considerato l'illustre capostipite della letteratura femminista del Novecento europeo, è un testo fondamentale sulla condizione della donna e la questione di genere.
Mi sembrava giusto parlarvi di quest'opera proprio oggi che è la "Festa delle donne" e al cinema, in questo periodo, c'è anche un bellissimo film, Suffragette, che vi consiglio caldamente di andare a vedere.


Un trattato ironico, immaginifico, personalissimo e vario, che riesce a unire l'analisi sociale e la satira.
Il leitmotiv della stanza, grembo e prigione dell'anima femminile, si allarga fino a comprendere tutti i luoghi della dimora umana: la natura, la cultura, la storia e infine la "realtà" stessa nella sua inquietante, ma esaltante molteplicità.
L'autrice demolisce la società patriarcale, bussa con forza alla porta del mondo della cultura, fino a quel momento di esclusivo appannaggio maschile, pretende di farvi irruzione, chiede che non ci siano più limiti e divieti per il pensiero delle donne.






Virginia Woolf, di fronte a una platea composta interamente da giovani studentesse, affronta il delicato tema delle "donne e la scrittura". Con una velata, ma pungente, ironia espone la condizione sociale di alcune delle romanziere più famose della storia, quelle pioniere che hanno aperto la strada a lei, ma anche alle scrittrici di oggi e di domani.
Quasi una conversazione a cuore aperto, in cui la stessa Woolf è consapevole di trovarsi in un periodo storico nel quale le donne hanno sì da poco conquistato il diritto di voto, ma in cui vengono ancora molto discriminate dalla società.

Le domande, che affollano la testa dell'autrice, sulla condizione delle donne sono innumerevoli. Decisa a trovare delle risposte, e soprattutto la verità, comincia un'analisi personale e accurata della letteratura del passato, scoprendo (senza tanta sorpresa) che sono tanti i libri sulle donne scritti da uomini; mentre le donne non scrivono libri sugli uomini.
I saggi sulle donne, oltre a sviolinare luoghi comuni presenti ancora oggi, si contraddicono, perché non pensano mai la stessa cosa sul sesso "debole".
Per la Woolf, tutti questi libri erano privi di valore in senso scientifico, una perdita di tempo, e soprattutto manifestavano una certa rabbia dell'autore in relazione all'argomento trattato. Quando qualcuno insiste troppo nell'enfatizzare l'inferiorità delle donne, si riferisce non alla loro inferiorità, bensì alla propria superiorità. E quando non si ha fiducia in sé stessi, pensare che gli altri siano inferiori è uno dei modi per sopravvivere alla vita dura.
Nell'Inghilterra patriarcale dell'epoca, la donna ha la funzione di uno specchio: se non fosse inferiore cesserebbe di ingrandire gli uomini.

Sembra che alle donne delle opere di Shakespeare non manchi personalità né carattere, ma queste sono le donne della letteratura, nella realtà venivano rinchiuse, picchiate e malmenate. Nell'immaginazione aveva un'importanza enorme, praticamente era del tutto insignificante.
Si sottolinea il fatto che sulle donne non si sappia nulla prima del Settecento: qualunque donna, nata nel Cinquecento con un grandissimo talento per la scrittura, sarebbe certamente impazzita, o si sarebbe suicidata, o avrebbe finito i suoi giorni in qualche capanna solitaria, temuta e schernita, ostacolata e impedita dagli altri. Per questo è vera la frase che "sarebbe stato completamente e interamente impossibile che una donna scrivesse i drammi di Shakespeare nell'epoca di Shakespeare.
Se verso alcuni scrittori c'era un'assoluta indifferenza, che scrivessero o no, le donne erano invece soggette a un'estrema ostilità da parte della società. Era opinione comune che intellettualmente non ci si poteva aspettare nulla dalle donne.

Nel Seicento erano solo le contesse a scrivere, senza pubblico né critica, ma solo per il loro diletto, perché avevano più possibilità. Alla fine di quel secolo però, grazie a donne come Aphra Behn, anche le donne della classe media cominciarono a scrivere e questo permise di dare uno sguardo alla comune gente di strada, prima di allora ignorata. Aphra Behn fu una pioniera, se ce l'aveva fatta lei, potevano farcela anche le altre.
Nel Settecento centinaia di donne cominciarono a pagarsi le piccole spese e a contribuire alle spese di casa traducendo, oppure scrivendo romanzi. Il dato di fatto era che il denaro conferiva dignità a ciò che era frivolo se non pagato. Senza queste precorritrici, né Jane Austen né le BronteGeorge Eliot avrebbero potuto scrivere e diventare famose. Perché i capolavori non nascono solitari e isolati, ma sono il risultato di molti anni di pensiero comune, il pensiero del popolo, per cui dietro quella singola voce c'è l'esperienza della massa.
Nell'Ottocento cominciano ad esserci più opere scritte da donne, ma sono tutti romanzi. Virginia Woolf ipotizza che tutte loro fossero spinte a scrivere solo romanzi, perché per essi serviva meno concentrazione e visto che, all'epoca, nessuna donna poteva permettersi una stanza tutta per sé per poter scrivere in pace e tranquillità (tutte si dedicavano alle loro opere nel soggiorno comune, soggette a ogni tipo di interruzione) questa era la soluzione migliore.
Nonostante l'aumento di scrittrici, esse venivano comunque tagliate fuori dal mondo. Gli uomini avevano più possibilità di fare esperienze; ad esempio, nello stesso periodo, se Tolstoj non fosse partito per la guerra e avesse fatto esperienze di vita senza costrizioni né censure, difficilmente avrebbe scritto "Guerra e pace".

Un romanzo ha corrispondenza con la vita reale, i suoi valori sono, fino a un certo punto, quelli della vita reale. Ma è ovvio che i valori delle donne sono spesso diversi dai valori costruiti dall'altro sesso, è naturale. Ad esempio lo sport è un'argomento importante, mentre la moda e i vestiti sono cose futili. Questo, sotto diversi aspetti, succede anche oggi.
Quindi all'epoca, una donna doveva essere forte e avere un'incredibile integrità per resistere a tutte quelle critiche, sopravvivere a una società patriarcale, tenersi saldamente alla realtà così come la vedeva, senza distorcerla, e scrivere come una donna non come scriveva un uomo.
Secondo la Woolf, le uniche a riuscire in questo intento furono Jane Austen e Emily Bronte.

Nel Novecento, finalmente, i libri scritti da donne sono quasi quanti quelli degli uomini e esse non si limitano più a scrivere solo romanzi. Fino a quel momento tutte le grandi donne della letteratura erano state viste, non solo dall'altro sesso, ma anche solo in relazione all'altro sesso; adesso era ora di percorrere altre strade.

Virginia Woolf non da mai dei giudizi, in questo saggio, non si sbilancia mai su chi ha ragione o torto; tranne che in un momento, in cui afferma che tutti quelli che hanno contribuito a stabilire l'autocoscienza sessuale sono colpevoli. Entrambi i sessi indistintamente.
L'uomo non dovrebbe offuscare la donna con la sua ombra; è fondamentale che i due sessi collaborino tra loro, sono fatti per questo. E anche le loro menti sono strutturate così, in quanto devono essere metà maschili e metà femminili: la così detta "mente androgena" fondamentale, secondo l'autrice ma non solo, per chiunque voglia scrivere. Per uno scrittore è fatale pensare al proprio sesso, essere un uomo o una donna puramente e semplicemente, dovrebbe essere una donna maschile e un uomo femminile (nel senso più ampio del termine).

Dopo aver letto questo splendido saggio della Woolf, scritto neppure novant'anni fa, si possono notare alcune similitudini con i giorni nostri. Certo, sono stati fatti innumerevoli passi avanti sulla condizione della donna, ma alcuni pregiudizi rimangono e sono ancora alcuni muri da abbattere.
Inoltre, questo piccolo libro di appena 120 pagine ci apre a un diverso punto di vista: i romanzi ci possono raccontare una storia più grande (e importante a volte) di quella scritta al loro interno, ed è la storia della condizione delle donne attraverso i secoli, della società in cui vivevano e del pensiero comune che le condizionava.

venerdì 4 marzo 2016

CRONACHE DAL GRUPPO DI LETTURA #6

Accidenti!! è un anno che non partecipavo più al Gruppo di Lettura "scratchmade", l'ultima volta risale a fine febbraio in cui leggemmo "Rumore bianco" di DeLillo.
Ma loro non si sono fermati, hanno continuato a leggere anche senza di me, e hanno letto un sacco!! In più, il GDL si è ingrandito, ci sono molti più partecipanti e ci sono anche più letture in contemporanea (come ad esempio la #MaratonaShakespeariana).
Mi sono riunita a tutti loro per leggere David Grossman e il suo "Che tu sia per me il coltello". Come al solito c'è stato un sondaggio per decidere autore e romanzo e poi, quest'ultimo, è stato suddiviso in 4 tappe settimanali (assolutamente indicative, perché poi ognuno si gestisce la lettura come preferisce):

1° TAPPA: da pag 1 a pag 81
2° TAPPA: da pag 82 a pag 162
3° TAPPA: da pag 163 a pag 244
4° TAPPA: da pag 245 a pag 326

In un gruppo di persone, un uomo vede una donna sconosciuta che con un gesto quasi impercettibile - si stringe nelle braccia - sembra volersi isolare dagli altri. E' un gesto che lo commuove e lui, Yair, le scrive una lettera, proponendole un rapporto profondo, aperto, libero da qualsiasi vincolo, ma esclusivamente epistolare. Più che una proposta è un'implorazione, e Myriam ne resta colpita, forse un po' sedotta. Accetta, anche se spera di trasformare le parole in fatti, perché quella in cui lei crede è un'intimità assoluta.
Un mondo privato si crea così fra loro, ognuno dei due offre all'altro ciò che mai avrebbe osato dare ad alcuno, e in questo processo di svelamento Yair e Myriam scoprono l'importanza dell'immaginazione nei rapporti umani, e la sensualità che si nasconde tra le parole. E' una scoperta lenta e dolorosa. Perché Yair (istintivo, spaventato, infantile) nel concentrarsi su se stesso e nel preoccuparsi del proprio fascino, non riesce a capire ciò che Myriam gli sta raccontando per davvero. Solo col tempo si accorge che ognuna delle lettere di questa donna, così generosa nel ricevere e nel dare, racchiude qualcosa di assolutamente inatteso: lei si rivela una creatura di singolare intensità, che ha sofferto, ha lottato, e per questo può condurlo a una svolta nella sua vita interiore. Soltanto lì Yair a poco a poco si ritrae per far emergere la straordinaria figura di Myriam.

1° TAPPA: quasi alla fine della prima settimana arriva il prezioso consiglio di Paola:
"Volevo dire, a chi lo legge per la prima volta e che lo trova fastidioso o noioso o ripetitivo, che bisogna arrivare fino in fondo per poi esprimersi. Questo libro racconta di un rapporto molto particolare che, oggi, talvolta filtriamo non attraverso le categorie dell'amore (sia pure un tantino ossessivo), ma delle malattie psicopatologiche o, peggio ancora, del disincanto personale forse perché non crediamo più a storie del genere. Ecco, se mi posso permettere, il mio consiglio è che vi lasciate trasportare dalla follia reale o apparente di Yair, poi si vedrà. Più avanti sarà Myriam e le donne, si sa, sono sempre un passo avanti... Buona giornata."
Ne nasce una discussione dove alcuni lettori palesano il loro sospetto che Yair sia uno stalker; altri lo trovano noioso e irritante (io sono più tra questi); ma ci sono anche quelli a cui il libro sta piacendo, e molto!
Carol (Pausa Libro) afferma di essere poco incline a sostenere una corrispondenza come quella tra Yair e Miriam, non tanto per paura o a causa dei tempi che cambiano (nessuno scrive più lettere), ma per un personale scetticismo verso chi scrive e soprattutto in quel modo (io la penso proprio come Carol). Prontamente  Paola la "accusa" di essere vittima del disincanto.
Ed è arrivata domenica, la prima tappa si conclude a pagina 81, e io seguo il consiglio della saggia Paola e continuo la lettura (un po' annoiata, se devo dire la verità).

2° TAPPA: all'inizio della seconda settimana Elena di Io e Pepe ci comunica che lei ha praticamente polverizzato la seconda tappa. E' alle calcagna di Linda e Francesca che sfrecciano spedite verso la fine della terza tappa; e di Giulia che, invece, è già arrivata all'ultima pagina.
Ragazze niente spoiler, mi raccomando, che noi che andiamo a rilento vogliamo gustarcelo.
Settimana un po' piatta, ma arriviamo tutti (chi prima e chi dopo) a pagina 162.

3° TAPPA: Elena (Io e Pepe) apre la settimana con un annuncio (o una previsione?):
"Io lo so. Di questo libro mi piaceranno soprattutto le ultime novanta pagine."
E io comincio a pensarla proprio come lei. Il personaggio di Yair non mi piace, mi infastidisce, e non vedo l'ora di cominciare a leggere la parte riguardante Myriam.
Mentre Linda va ad aggiungersi a tutti quelli che hanno già terminato il romanzo, gli altri condividono citazioni ed estratti del libro come se piovesse. Ma che bravi e attenti questi lettori del GDL, io queste belle frasi non riesco proprio a vederle, non ci faccio proprio attenzione; sarà che mentre leggo mi accorgo di pensare ad altro, perché Yair mi annoia e non mi piace (l'ho già detto?).
Fatto sta che siamo quasi alla fine della terza settimana e finalmente comincia a parlare Myriam. Da quanto tempo aspettavo questo momento. Addio Yair!!

4° TAPPA: un silenzio tombale...credevo di essere rimasta sola e invece a metà settimana scopro che, tra il ritirato Andrea e altri che sono rimasti indietro (ma tengono duro), mi fanno compagnia verso lo sprint finale Simone, Mika Ela e Anita.
Ho sforato la tappa di qualche giorno, ma l'importante è averlo finito, e se devo essere sincera con voi: non vedevo l'ora!!


Io ci ho provato a leggerlo con occhi diversi, senza lasciarmi influenzare da ciò che Yair scriveva, o meglio, da COME lo scriveva. Ma non ce l'ho fatta. Non mi piaceva, lo trovavo infantile e confusionario, un po' troppo concentrato a fare bella figura con tutte le sue citazioni e i suoi lunghi monologhi, da non accorgersi di altro. Mi sono sembrate solo fastidiose elucubrazioni di un depresso che va ruota libera.
Forse non era il momento adatto, per me, di leggere un libro così.
Mi è piaciuta quella specie di inversioni di ruoli: l'uomo più sognatore ed emotivo (Yair), mentre la donna più concreta e realistica (Myriam).
Ma questo basta a salvare tutto il romanzo? Sicuramente la parte di Myriam è più scorrevole, interessante e stimolante, ma non so ancora esprimere un giudizio su tutta l'opera.
Credo di aver bisogno ancora di un po' di tempo, per far marinare le idee...

Potete trovare QUI riflessioni e commenti sul libro, decisamente più articolati, di alcuni miei compagni di lettura.

martedì 1 marzo 2016

GUARDRAIL di Eva Clesis

Questo ebook mi è stato regalato dalla Las Vegas Edizioni per essermi iscritta alla loro Newsletter. Una casa editrice che si occupa principalmente di narrativa non di genere (i jackpot) e per giovani adulti (las cerezitas); in più ha una collana di libri a metà tra la narrativa e la varia (i jolly).
Ho conosciuto la Las Vegas Edizioni a Roma durante Più Libri Più Liberi e in quell'occasione avevo comprato due romanzi, "La penultima città" di Piero Calò e "Attraversami" di Christian Mascheroni, che non vedo l'ora di leggere. Ma per ora vi parlo di "Guardrail" di Eva Clesis, che fa parte dei jackpot, quindi della narrativa non di genere.


Alice ha sedici anni, è orfana, mezza inglese, vive in un paesino del Sud Italia e ha un piano. Quello di fuggire dalla dispotica nonna paterna, che utilizza il terrore come politica educativa; da un'amica snob e traditrice; da un amore senza speranza e dalla scuola che non le perdona i suoi problemi con la lingua italiana.
Con cinquecento euro in tasca, decide di fare l'autostop e scappare verso le sue origini, verso l'aeroporto per prendere il primo volo per Londra.
E qui inizia l'avventura on the road, a bordo di una macchina guidata da un tizio misterioso con gli occhiali da sole, che non la vuole accontentare, fino al rovesciamento della storia e persino dell'identità dei personaggi, con un colpo di scena che spiazza ed emoziona.


La protagonista si chiama Assunzione Maria Addolorata De Caro, ma non chiamatela così perché non vi risponderà. I suoi genitori, il giorno del suo settimo compleanno, l'hanno ribattezzata Alice, un po' per far prima e un po' in onore del suo libro preferito "Alice nel Paese delle Meraviglie".
La nostra Alice, in un certo senso, non ha in comune solo il nome con la giovane eroina di Lewis Carroll, ma anche lei vive in una sorta di Paese delle Meraviglie, abitato da personaggi strani, inquietanti e cattivi. Ad un certo punto sembra cadere anche lei nella tana del coniglio e ritrovarsi confusa e spaesata in un mondo che non comprende del tutto, in cui parlano una lingua che non è propriamente la sua e in cui nessuno la capisce.
Ma se per l'Alice di Carroll è tutto uno strano sogno, fatto all'ombra di un albero; per la nostra protagonista si tratta della vita vera. L'unico modo che trova per sopravvivere a questo strano mondo è l'aggressività e la violenza, mentre aspetta il momento giusto per scappare.

Superata di molto la metà, e partita l'avventura on the road di Alice, ormai cominciavo a pensare che per la protagonista sarebbe andato tutto bene, avrebbe smesso di soffrire e portato a termine i suoi piani; e invece sono rimasta spiazzata dal colpo di scena, che mi ha fatto pensare al peggio... e quando sembrava che tutto, alla fine, si sarebbe sistemato per il meglio, un altro colpo di scena inaspettato mi ha fatto temere ancora per il peggio... ma al peggio del peggio...
Nonostante non fosse per niente una storia piatta, grazie soprattutto al carattere esplosivo di Alice, sono state queste due sorprese a movimentare in modo incredibile tutta la vicenda. Le sensazioni di panico, agitazione e a tratti terrore, che provava la ragazza in quel momento, mi hanno accompagnato per qualche giorno finita la lettura.

Un romanzo veloce e scorrevole, scritto in un linguaggio molto ricco e ricercato, per nulla pretenzioso, ma piacevole da leggere e si capisce benissimo che l'autrice, Eva Clesis, ha un'ottima conoscenza della lingua italiana.
Il personaggio di Alice è ben delineato e, anche se si tratta di un romanzo breve, si riesce ad avere un quadro generale e preciso della situazione e della sua vita. Una vita caratterizzata da tanti "prima" e "dopo", alcuni più importanti di altri e sui quali si basa tutto il romanzo. Ad esempio il prima e il dopo la morte dei suoi genitori, o il prima e il dopo la sua amicizia con Angelica, oppure il prima e il dopo la sua fuga. Avvenimenti cruciali nel mondo di Alice, che portano rabbia, confusione e conseguenze che non sa gestire.
Il ritmo è incalzante, spinge il lettore a continuare la lettura, per poter scoprire cosa succede alla povera Alice. Alla sera, è stato difficile posarlo sul comodino, per spegnere la luce e dormire, l'avrei letto tutto d'un fiato.